La scorsa settimana si è celebrato il trentesimo compleanno di una delle più note e lette saghe fumettistiche italiane (ma, via, diciamo anche europee). Era il 1986 quando Tiziano Sclavi ha proposto a Sergio Bonelli di tentare esplorare un genere nuovo rispetto al western classico alla Tex, l’avventura pura di Mister No, o al western a tinte fantasy e fantascientifiche di Zagor.

Dylan Dog nasce così, un indagatore dell’incubo in un panorama fumettistico popolato da ranger, cowboy e avventurieri. E, cosa che dovrebbe sorprenderci col senno di poi, è un flop tremendo. Succede che la Bonelli non è mai stata particolarmente ferrata nel marketing e si è limitata a pubblicizzare Dylan Dog in appendice agli altri fumetti di sua pubblicazione, il problema è che quegli stessi albi hanno sia un genere sia un target di riferimento totalmente diverso rispetto a quello pensato per la nuova serie di Sclavi, e quindi non si riesce a catturare l’interesse di quel pubblico. Ma l’interesse esiste. È solo dopo qualche numero, quando Sergio Bonelli si era già rassegnato a comunicare a Sclavi la chiusura della testata, che i dati di vendita hanno cominciato a schizzare verso l’alto, talmente in alto da lasciare all’inizio l’impressione che si trattasse un errore di battitura del distributore. Invece no. A decretare il successo definitivo della serie di Sclavi è stato un fenomeno che nell’odierna era della comunicazione social paradossalmente non si vede più, o accade solo di rado: il passaparola.

Dylan Dog ha tutte le caratteristiche che possono accattivare un nuovo tipo di lettore che in precedenza faceva parte solo di striscio del target di riferimento bonelliano. Dylan Dog è giovane, citazionista, splatter, popolato da donne bellissime che non si fanno remore a sfilarsi di tanto in tanto i vestiti di dosso.

Fosse questa quel genere di recensione, dopo questo preambolo sull’indagatore dell’incubo e sul perché, trent’anni fa, ha funzionato così bene, ora non mi resterebbe che ricapitolare le gioie e i dolori di Dylan Dog, parlare un po’ di albi storici come Il lungo addio, Johnny Freak, Morgana e, ovviamente, Mater Morbi, di cui questo Mater Dolorosa è una sorta di sequel, lodare Recchioni, lodare Cavenago e chiuderla qui. Invece ho deciso di guardare al trentennale di Dylan Dog sotto un’ottica un po’ diversa.

Io Dylan Dog lo leggevo da piccolo. Era horror, splatter perfino. E c’erano le ragazze con le tette di fuori. Come potevo non farmelo piacere? A ciò aggiungiamo che me li portava a casa mio padre, che lavorava in una legatoria dove venivano stampati fumetti Bonelli – il che mi permetteva di leggerli senza giustificarne l’acquisto con mia nonna, che durante il giorno si prendeva cura di me e che avrebbe senza ombra di dubbio disapprovato. In pratica, Dylan Dog è stato un caposaldo delle mie letture giovanili. Poi la mia passione per i fumetti è andata scomparendo. Dylan Dog è finito in soffitta insieme ai vecchi Topolino e lì è rimasto, mentre io mi dedicavo esclusivamente ai romanzi. Ok, con la sola eccezione di PK, ma cosa volete? PK è awesome.

Salto temporale fino al 2014. Un po’ per piacere, un po’ perché mi sono messo a imparare come si sceneggia un fumetto, ho ripreso le letture interrotte quasi vent’anni prima. In particolare ho ripreso a leggere Dylan Dog e per un motivo ben preciso. Proprio in quel periodo era stato annunciato dal nuovo curatore della serie, Roberto Recchioni, un “nuovo corso” che aveva come obiettivi quelli di riprendere le redini di una serie lasciata andare alla deriva e anche di incrementare il numero dei lettori, riportando nel gregge i lettori di vecchio corso che avevano abbandonato la serie insieme a Sclavi, ma anche, perché no, dei nuovi lettori, che schifo non fanno.

Quello che voglio fare, quindi, è una cosa un po’ diversa. Non voglio analizzare Mater Morbi come un punto di arrivo, le celebrazioni di trent’anni di carriera di un personaggio nel bene o nel male sempre di primo piano nella cultura popolare italiana, a fumetti e non solo, ma come un punto di partenza. Facciamo finta che io non abbia letto Dylan Dog negli anni Novanta. Facciamo finta che io non sappia nulla di Il lungo addio, Johnny Freak e Morgana. Facciamo anche finta che io non sappia dell’esistenza di Mater Morbi. Ho deciso di mettermi nei panni di un lettore nuovo di zecca, di quelli che la fase due del rilancio recchioniano doveva acchiappare, che ha cominciato a leggere la serie dal numero 337, ossia quello Spazio profondo di Roberto Recchioni e Nicola Mari che proprio al nuovo corso doveva dare l’avvio.

Se seguite questo blog sapete che la mia serie Bonelli preferita in assoluto 5ever è Dragonero. A parte il fatto che è una serie fantasy e che, tra trashate e figate, Stefano Vietti e Luca Enoch riescono sempre a intrattenermi, uno dei motivi per cui mi piace Dragonero è il senso di continuity della storia. Confessso di essere un po’ fissato per la continuity, mi piace che una storia non dica tutto ciò che ha da dire in un albo per poi ricominciare daccapo nell’albo successivo. È un po’ la differenza che c’è tra Breaking Bad e La signora in giallo. Posto che sia Walter White, sia Jessica Fletcher sono dei badass motherfuckers, uno può sintonizzarsi su un episodio qualsiasi di La Signora in giallo, guardarlo e poi smettere per sempre (a meno che non si tratti del crossover con Magnum P.I., nel quale caso smettere per sempre è letteralmente impossibile per via dell’overdose da anni Ottanta). La storia di La signora in giallo è tutta lì, racchiusa nei cinquanta minuti di telefilm. Breaking Bad, invece, devi guardartelo dall’inizio alla fine, perché c’è una cosa che si chiama trama orizzontale che si dipana lungo cinque stagioni. In questo paragone, Dylan Dog è La signora in giallo, e non solo per il numero di morti che avvengono nelle vicinanze di entrambi.

Il Dylan Dog del vecchio corso è ok quando si cerca horror, splatter, tettine e l’occasionale orrore psicologico. Andava bene quando ero piccolo. Andava bene agli adolescenti degli anni Ottanta e primi anni Novanta che leggevano un personaggio che, pur essendo adulto, era simile a loro, che amava intensamente donne bellissime con estrema facilità e, con la stessa facilità, le dimenticava non menzionandole mai più (se non nelle ristampe, per citare Groucho in un albo di Paola Barbato). Il me adulto, o presunto tale, invece, in una storia cerca qualcosa di più. E non si tratta solo dell’appagamento che deriva dal sapere che gli eventi di una storia non saranno più dimenticati alla conclusione della stessa.

Dal rilancio made in Recchioni mi aspettavo questo. E confesso di esserne rimasto un po’ deluso quando, albi alla mano, le storie che mi sono piaciute senza riserve sono poche. Quattro, per la precisione. La prima è Al servizio del caos (#341 di Recchioni/Bigliardo e Stano), che introduce un nuovo personaggio di nome John Ghost, presentato come il nuovo antagonista di Dylan Dog. Poi abbiamo la delirante ed efficacissima … E cenere tornerai (#346 di Barbato/Raul e Gianluca Cestaro), e La macchina umana (#356 di Bilotta/De Tommaso) che pur essendo una storia quasi fine a sé stessa è pur sempre una di quelle odissee nella modernità opprimente che a Bilotta riescono benissimo e che non mancano di lasciare il segno.

La quarta storia a essermi piaciuta è la qui presente Mater Dolorosa.

Scritta da Roberto Recchioni, con disegni e colori di Gigi Cavenago, Mater Dolorosa è sia una celebrazione del passato di Dylan Dog, sia una sorta di teaser del suo futuro. Troviamo Dylan emaciato e sofferente, vittima di un male misterioso che già lo aveva afflitto anni prima. Il che significa che Mater Morbi, la madre di tutte le malattie, è tornata a perseguitarlo e per sconfiggerla Dylan dovrà affrontare un’odissea personale, onirica e delirante, nel suo passato e nel suo dolore. Si tratta di una storia che funziona molto bene perché riesce a incanalare alla perfezione la figura di Dylan Dog, con tutte le sue inquietudini e le sue paure, riuscendo nel contempo anche a mostrare perché, pur non essendo un ranger, un cowboy o un avventuriero, Dylan è un eroe a tutti gli effetti.

Ma tessere le lodi della storia senza menzionare il lavoro ai disegni e ai colori di Gigi Cavenago sarebbe una dimenticanza imperdonabile. Ho adorato il modo in cui i disegni facevano da complemento alla storia, il tratto abbozzato e rozzo che andava a braccetto con la discesa di Dylan nell’inquietudine, i colori opachi e opprimenti, così come la scelta non tanto di abbandonare la classica griglia Bonelli (che per chi non lo sapesse consiste nell’impostare una pagina con sei vignette, in tre strisce orizzontali da due vignette ciascuna, che possono poi essere unite per formare vignette doppie, quadruple o perfino sestuple), ma di utilizzarne una versione debitamente modificata per far sì che fosse la griglia a supportare la storia e non la storia a infilarsi nella griglia. Vedere in un fumetto Bonelli una doppia splash (ossia due facciate, una accanto all’altra, interamente ricoperte dal disegno, senza bordi o margini) mi ha suscitato una gioia che quasi provo imbarazzo a confessare. In pratica è così, come ha fatto Cavenago, sulla base della sceneggiatura di Recchioni, che dovrebbero essere concepiti i fumetti italiani nell’anno del signore duemilasedici.

Mater Dolorosa, in buona sostanza, è una grande storia che parla di paura, sofferenza e della necessità di trovare il coraggio per andare avanti.

E a proposito di andare avanti. Non sono del tutto sicuro sia stata una volontà conscia di Recchioni, ma a me è sembrato che questo Mater Dolorosa “chiudesse” in via definitiva con il vecchio corso di Dylan Dog e aprisse le porte per qualcosa di nuovo. A un certo punto della storia, John Ghost rivela a Dylan che non solo lo sta tenendo d’occhio da un po’ – cosa che si era già capita leggendo Al servizio del caos e alcuni albi successivi – ma anche e soprattutto che il suo interesse nei confronti di Dylan ha una motivazione ben precisa.

Se l’operazione di rilancio di Dylan Dog è cominciata nel settembre 2014 con Spazio profondo, una storia che parlava di una metaforica astronave alla deriva, Mater Dolorosa si chiude in un punto in cui, anche grazie alla “profezia” di John Ghost, per la prima volta da che leggo Dylan Dog mi sono trovato a chiedermi: chissà cosa succede nei prossimi numeri, chissà come proseguirà la storia, chissà dove andranno a parare.

In un post su Facebook (che non riesco più a trovare perché Recchioni è un floddone) si annunciava anche una “fase tre” del rilancio di Dylan Dog, che dovrebbe cominciare alla fine dell’anno prossimo. Questa nuova fase dovrebbe introdurre un elemento di beneamata continuity, quella che mi ero illuso di ritrovare già a partire dal 2014. E si tratta, per quanto mi riguarda, di una notizia fantastica, non tanto perché sono un patito delle storie con un grande passato dietro di loro (il genere di passato che riverbera nel presente), ma perché la continuity è un elemento che arricchisce in maniera significativa una storia. La semplice prospettiva che, in un annetto, potrò chiudere un albo di Dylan Dog con la trepidazione all’idea di leggere il prossimo, e non con la rassegnazione di ripetermi “un’altra storia con potenziale ma risolta così così”, vale senza dubbio l’attesa.

Quindi, tornando allo scopo principale di questa recensione, qual è il giudizio finale su Mater Dolorosa dal punto di vista di un lettore interessato solo al nuovo corso? Per quanto mi riguarda è assolutamente positivo. La storia incanala lo spirito del personaggio, il suo passato (che i nuovi lettori tecnicamente non dovrebbero conoscere e che, in effetti potrebbe confondere qualcuno – ma sfido chiunque a leggere di Morgana o del galeone o di Moonlight, o della stessa Mater Morbi senza dirsi, cazzo, devo recuperare i vecchi albi), e soprattutto apre le porte per un futuro che, se Recchioni gioca bene le sue carte, porterà Dylan Dog a festeggiare il traguardo dei quarant’anni e anche oltre.